Maria é una fillus de anima, " è così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna ( che li cede) e dalla sterilità di unʼaltra" ( che li accoglie e li alleva).
Nel nostro caso Maria è stata " adottata" da Tzia Bonaria, una anziana vedova.
La prima parte del romanzo, la più riuscita, narra lʼinfanzia e lʼadolescenza di Maria, ed in particolare la graduale conoscenza con la madre adottiva, una donna sempre vestita di nero, severa, chiusa, che apparentemente svolge lʼattività di sarta.
Tzia Bonaria offre una relativa agiatezza alla bambina, la fa studiare e soprattutto costruisce intorno a Maria una fragile normalità, comportandosi " come se la creatura le fosse nata in grembo".
Per Maria il rapporto filiale e lʼaccettazione della doppia appartenenza a due famiglie sono una graduale conquista, che lʼabitua ad essere al centro dellʼattenzione della gente, ad accettare situazioni anomale e a modellare, da sola e in modo autonomo, la propria vita.
La capacità di affrontare lʼindicibilità del mondo e della natura umana si scontra, tuttavia, con una scoperta sconcertante ed inquietante.
Tzia Bonaria è una accadabora, ossia una donna che dà la dolce morte (lʼeutanasia) a chi glielo chiede.
In un drammatico colloquio, Maria, " con un singhiozzo senza pianto di una bestia strozzata" vorrebbe che lʼanziana vedova le spiegasse " questa cosa necessaria", dare la dolce morte.
E la giustificazione di Tzia Bonaria è incredibile, al di là della comprensione di Maria.
" Ho imparato da sola, dice la Tzia Bonaria, che ai figli bisogna dare lo schiaffo e la carezza, e il seno, e il vino della festa, e tutto quello che serve, quando gli serve.
Anche io avevo la mia parte da fare, e lʼho fatta ....
Io sono stata lʼultima madre che alcuni hanno visto ....Quando verrà il momento, Maria, scoprirai cose di te che non conosci ancora".
La ragazza non regge lʼidea di vivere con una donna che dà la morte e fugge lontano dalla Sardegna, trovando un lavoro presso una famiglia di Torino.
È la seconda parte del romanzo, un interludio, che è anche uno snodo, non chiarissimo peraltro, della vicenda.
Uno dei ragazzi, che le sono stati affidati nella sua funzione di governante, è un adolescente taciturno, ostile, autoritario, ma lʼabitudine di Maria a misurarsi con lʼindescrivibile permette alla ragazza di farsi aprire lʼanimo del giovane e di scoprire un terribile segreto: il ragazzo ha subìto un abuso sessuale quando era piccolo.
La condivisione di un fatto così orribile porta allʼamore, perché il legame tra le persone è tanto più forte quanto più si appoggia sui misteri profondi dellʼanimo umano.
Nella terza parte del romanzo, Maria ritorna in Sardegna ad assistere Tzia Bonaria nella sua lenta agonia.
Si va gradualmente, ma anche stancamente, allʼepilogo, senza, tuttavia, che ci sia la conclusione che dovremmo aspettarci.
Perché Tzia Bonaria muore un momento prima che Maria stia per compiere lʼeutanasia ? È la dolce morte un limite che non riusciamo a superare ? Qualche cosa che non riusciamo comunque ad accettare ?
Affrontando un tema così complesso, esisteva il rischio di una prosa ridondante, ricca di incisi e di passaggi enfatici.
Lʼautrice si è mossa, invece, con uno stile leggero, sobrio, a tratti ironico, affidandosi a ritratti gustosi e a episodi tipici della vita agreste della Sardegna.
La prima parte del romanzo è senza dubbio quella migliore sia dal punto di vista della scrittura che per quanto riguarda la trama.
La narrazione si sviluppa di intensità via via che ci si avvicina alla scena finale: il colloquio chiarificatore tra Maria e Tzia Bonaria.
Nelle parti successive la narrazione diviene gonfia, perde quellʼessenzialità e quella levità che avevano caratterizzato le pagine precedenti.
Ed anche la trama narrativa si dissolve frantumandosi e privando il lettore di una chiara visione del percorso verso la conclusione, che anche per questo delude.
Perché leggerlo ? Il tema è interessante, la scrittura piacevole.