Tra i migliori che ho letto!

The cold eye of Heaven (Farley)

scritto da Dwyer Hickey Christine
  • Pubblicato nel 2011
  • Edito da Atlantic Books
  • Letto in Italiano
  • Finito di leggere il 03 settembre 2022
Quando ci si avvicina alla fine della vita si desidera ripercorrere con la memoria la propria esistenza. Se si è dei grandi uomini ci si può illudere di lasciare un ricordo di sé con una biografia ricca di personaggi e di avvenimenti: una sorta di narrazione del proprio ruolo nella storia. Ma quando si è dei piccoli uomini con una vita banale che senso ha fare una cronaca della propria vita? Non resta che la rimembranza che ci vede "nella fissità di un ritratto", frutto della mescolanza di fatti reali e di immaginazione (si veda in questo sito il "Giorno del giudizio" di Salvatore Satta); oppure, per dirla con Italo Svevo, "la vita più intensa è raccontata in sintesi dal suono più rudimentale, quello dell'onda del mare, che, dacché si forma, muta ad ogni istante finché non muore"(vedi la " Coscienza di Zeno" recensita in questo sito). Christine Dwyer Hickey compie un'operazione ancora più spericolata di quella di Zeno e Satta. All'apparenza l'autrice ripercorre l'esistenza di Farley come se fosse un resoconto a ritroso degli eventi più importanti della sua vita di modesto impiegato: ultrasettantenne ormai solo, attende con ansia di vedere la giovane vicina che "lo faccia sentire un po' più giovane, soltanto un poco meno vecchio";  si affanna ad acquistare un vestito adeguato al funerale del proprio titolare, funerale dove per altro non è invitato; lo vediamo al rinfresco per il suo pensionamento chiedersi se gli mancherà qualcosa della vita di ufficio, con "le stupide freddure e l'arroganza dei giovani, le trivialità del lunedì mattina e l'odore di dopo barba scadente, i troppi fastidi e i dispetti senza senso, i primi della classe e i menefreghisti di ogni cosa " Andando indietro nel tempo vediamo Farley prendersi cura della madre, la quale ha sempre preferito il fratello intellettuale, egoista ed assente; ed eccolo dall'amante (la moglie del titolare) prendere la decisione sconsiderata di finanziare la ditta per cui lavora senza pretendere un attestato del prestito; ed indietro ancora il lutto devastante per la perdita della moglie, la scelta di mettersi a lavorare per sposarsi abbandonando sogni di viaggi,  la notizia della morte del padre, lui ancora dodicenne, e infine a cinque anni in ospedale l'inutile attesa della visita dei genitori. Di certo, Farley è il tipico piccolo borghese; se si è appiattito in una routine senza ambizioni e colpi di scena è in fondo colpa sua: ha sempre fatto le scelte meno impegnative, si è messo a disposizione degli altri quasi volentieri, sia che fossero il titolare, la moglie, l'amante ovvero la madre, il fratello e persino la vicina di casa, vagheggiata nei rimasugli erotici di un povero vecchio. Se però mettiamo Farley "sdraiato comodamente su una poltrona Club", come avrebbe detto Svevo, ci accorgiamo come la vita di Farley sia girata attorno ad un'attesa, quella del padre. Prendiamo ad esempio due passaggi del romanzo.  Farley ha cinque anni, arrivano finalmente in ospedale la mamma e il fratello, chiede dov'è il padre. E' a pescare? Alla risposta della donna che è al lavoro e non è potuto venire dal figlio, Farley percepisce "il rumore dell'acqua che scorre dolcemente. Si vede adesso su una riva. (...) Sta indossando gli stivali di gomma che lo coprono sino alla coscia: stivali che riconosce da una scatola in un ripiano essere quelli del  padre. (...) E' solo. Solo sulla riva. Un uomo, un ragazzo, un bambino, un neonato, un uomo di nuovo, tutto all'improvviso".  Adesso è vecchio  alla fine del libro. Vede il vicino correre a prendere l'autobus ma non riconosce il viso. "Allora il suo proprio padre invade la sua mente. Faccia sfortunatamente chiara. Morto d'infarto.. (...) Comunque di certo un bastardo che non ebbe il tempo o una parola per nessuno. Un ringhioso. Ringhiava al giornale, ringhiava alla radio, ringhiava se tu gli parlavi mentre stava pranzando". E al funerale tanti bei discorsi su un uomo che lui e suo fratello non avevano conosciuto. "Un grande conversatore. Un uomo intelligente. (...) Appassionato di pesca con la mosca".

Il romanzo è un capolavoro. Non è solo l'arguto espediente di un racconto a ritroso. In ciascuno degli eventi della sua vita Farley si muove come Bloom nell'Ulisse di Joyce: un cammino dispersivo ma affascinante tra strade e negozi di Dublino, tra personaggi minori che danno il senso di una vita solitaria ma superficialmente socievole (Farley è sempre  padrone di sé), tra riflessioni laterali, apparentemente marginali. Ne esce un percorso disordinato dei flussi di coscienza del protagonista e di come la faticosa manifestazione dell'io si radichi nei luoghi e nelle relazioni, e non in astratto in un lettino di un psicanalista. La scrittura è poi splendida e vibrante: è un diluvio di parole meravigliose, di fonemi intraducibili dei quali ci si appaga con l'orecchio e non con la vista, di un lessico ibridato con il parlare quotidiano, all'interno di una costruzione sintattica travolgente anche se non immediata per il lettore italiano, senza dubbio difficile da rendere nella nostra lingua.

Perché leggerlo? E' splendido, l'autrice è Joyce e Rushdie insieme.

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