Gradimento Medio
e non lo rileggerei

Melanconia della resistenza

scritto da Krasznahorkai Làszlò
  • Pubblicato nel 1989
  • Edito da Bompiani
  • 345 pagine
  • Letto in Italiano
  • Finito di leggere il 25 ottobre 2025
E' singolare iniziare la recensione di un romanzo ungherese richiamando "Tokyo Soundrack" di Hideo Fukukawa (si vede la recensione in questo sito).  E' proprio la lontananza geografica e culturale a rendere interessante l'accostamento. Se il racconto giapponese narra il disfacimento ambientale e sociale di Tokyo, qui lo stesso tema è sviluppato in una cittadina magiara travolta da un lento e inspiegabile disordine, come se <<quella micidiale realtà, molto terra terra, sembrava irreversibilmente destinata a svaporare>>.  Numerosi erano i segnali inequivocabili: la spazzatura che si accumulava per le strade senza che qualcuno la raccogliesse, le sempre più frequenti mancanze dell'elettricità, alberi secolari che crollavano, trasporto pubblico nel caos, poche e spaventate persone in giro, persino orde di gatti, <<bestie enorme, inselvatichite, (...) tornate al primitivo istinto dei predatori, testimoni e imperatori di un tramonto annunciato -- ma apparentemente rimandato all'infinito --->>, simili ai cani e ai corvi di Tokyo Soundrack, e ai cinghiali, nutrie, lupi e altri animali selvaggi che scorrazzano ormai per le nostre strade, insieme alla trionfante popolazione di ratti. << Un pantano sulla palude (...) era il fondamento ideale per la situazione, (con) la sensazione che le case, gli alberi, i lampioni e le colonne delle affissioni pubblicitarie vi sprofondassero dentro>>. E' una profezia, se pensiamo al nostro mondo che pare scivolare in un futuro subdolo, con noi che viviamo in "un'attesa senza speranza". Non è facile identificare i fili narrativi di un racconto imperniato di realismo magico, volutamente confuso e frammentario (e come potrebbe essere diversamente se quanto succede non è più razionale?), caratterizzato da lunghe digressioni anche filosofiche, da un tono ironico e paradossale, che ricorda Kafka.  Cerco di farlo partendo dai protagonisti, i quali, come diceva un grande studioso tedesco, Erich Auerbach, per i personaggi di Dante, sono una "rappresentazione figurale": esseri umani, con la loro sorte personale, e allegorie di idee atemporali del declino e del disordine.  Prendiamo il primo personaggio, la signora Pflaum; la conosciamo in una scena esilarante: il viaggio su un treno affollato, accanto a gente sporca e maleducata, lei così precisa e ordinata. Altrettanto divertente è la descrizione della piccola casa  tra <<gli oggetti immacolati dell'appartamento, e tutto le parve perfettamente in ordine, (...) era chiarissimo che tutti quelli che come lei vivevano nel loro piccolo silenzioso nido>>, avrebbero evitato le cose terribili che accadevano fuori. Quante signore Pflaum conosciamo che sono sicure che la cura delle piante, la pulizia dei mobili, le piccole routine quotidiane le preservino da sventure devastanti! C'è poi Valuska, << questo eccezionale artista della vita in estasi>>, convinto di avere trovato l'armonia nella perfezione delle costellazioni; guarda in cielo per non vedere ciò che succede in terra. Non si accorge, o gli va bene così, che i compagni d'osteria lo prendono in giro, quando ricostruisce con figure viventi la rotazione della Luna intorno alla Terra. Quanti di noi ci rifugiamo in ideali astratti per evitare di misurarci con la realtà? C'è pure il musicista Etszter: si è dimesso da Direttore del Conservatorio quando si è accorto che l'accordatura del pianoforte appiattiva i suoni in un'astratta e innaturale armonia, ed ora vive chiuso nel suo appartamento, a suonare un piano scordato, a pontificare sull'irrazionalità del reale con il suo unico allievo: il buono e sempliciotto Valuska. Quante volte siamo costretti ad ascoltare autorevoli filosofi sulla crisi dell'Occidente, anzi sull'Apocalisse che attende la terra, perché la nostra europea "Città dei Lumi" non sa difendere i valori dell'illuminismo e del cristianesimo! Ed infine c'è la signora Etszter, dal corpo enorme e sensuale, <<sentendosi padrona del futuro, guardava la città con gli occhi di un'audace ereditiera, convinta di trovarsi alle soglie di un'era radicalmente nuova, gravida di promesse, che avrebbe spazzato via tutto>>. Ma come successe nel primo decennio del Novecento, quando molti segnali facevano presagire la fine di un mondo apparentemente lieto e sicuro, ma ci volle l'irrompere della prima guerra mondiale a travolgere quell'età felice, così è l'arrivo di un circo, che espone il corpo mummificato di un'enorme balena, a rompere il fragile e declinante equilibrio; e niente è più come prima. Per fermare il saccheggio e le brutalità, dirette forse da una figura misteriosa, chiamato il Principe (il diavolo, la personificazione del Male?)  non è più possibile girare in tondo, ripararsi nella piccola pace domestica, o fantasticare di mondi lontani o filosofeggiare se "il reale è razionale"; ci vuole la mano ferma ed energica di chi sa comandare. La città dà volentieri il potere alla signora Etszter, personificazione del potere autoritario. Ci potremmo tristemente fermare qui: è innegabile, pare, che solo la dittatura può darci la bramosa serenità, le piccole e amate abitudini domestiche. Ma, forse, <<gli operai della distruzione>> (comandati dal Principe?) sono ancora in opera. Come nei Buddenbrook di Thomas Mann (si veda la recensione in questo sito), l'ultimo capitolo è dedicato al disfacimento del corpo con la morte: una descrizione dettagliata e precisa che ci ricorda come l'uomo, nella sua lunga evoluzione, abbia visto <<miliardi di cose inquiete, pronte al cambiamento continuo, aveva visto come dialogavano tra loro severamente senza capo né coda, ognuna per proprio conto; miliardi di relazioni, miliardi di storie, miliardi, ma si riducevano a una sola, che conteneva tutte le altre: la lotta tra ciò che resiste e ciò che tenta di sconfiggere la resistenza>>.

In una recente intervista (La Stampa 25 ottobre 2025) Orhan Pamuk afferma che "troppa etica uccide la letteratura. (...) La letteratura non è fatta per giudicare moralmente. E' un'arte delle connessioni, della comprensione. Ci permette di entrare nella mente di persone che non ci piacciono". E io aggiungerei: risponde al bisogno dell'uomo di ascoltare e raccontare storie, di appassionarsi ai personaggi, di amarli e detestarli; la letteratura ci insegna la complessità dell'uomo. Tutto questo manca in Krasznahorkai. Certo, i personaggi sono descritti come essere umani, con le loro debolezze e tratti caratteristici; ma non c'è approfondimento psicologico, sono trattati in modo ironico, senza empatia, presupposto della comprensione. Ciò è particolarmente vero per Valuska, in fondo il protagonista. La sua descrizione resta sempre in superficie, non va oltre a una sua rappresentazione paradossale: <<il pastrano delle poste, con relativa borsa a tracolla in cuoio, berretto, un paio di scarponi>>. Ma chi è questo ragazzo, già destinato al manicomio come l'idiota del villaggio? Quali sono i suoi sentimenti? Perché il suo legame fiducioso con il Direttore del Conservatorio? Tutto resta sospeso. 

Il pregio fondamentale del romanzo è la scrittura: un periodare lungo, ricco di incisi, che si sviluppa senza interruzioni, un fluire di parole e frasi che avvince il lettore. E' una lettura faticosa, bisogna leggere molte pagine di seguito, per entrare dentro lo stile narrativo, farsi condurre dallo scrittore nelle tante storie del racconto; ma dopo una cinquantina di pagine bisogna fermarsi, prendere fiato, ritrovare la forza e la volontà di continuare. Alla fine la fatica ha il sopravvento, e, bisogna ammetterlo, non si vede l'ora di arrivare alla fine.

Perché leggerlo? Inebriante la scrittura, a tratti molto divertente.

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