E difficile trovare un filo conduttore in questo breve romanzo, dalla trama esile, dai personaggi abbozzati perché vagheggiati e dal titolo fuorviante. C'è tuttavia un punto di ancoraggio: la figura della nonna, intorno alla quale si sviluppa il percorso di formazione del protagonista, l'io narratore di questa storia. "Troppo piccola di statura, grassoccia e gobba, bruttarella nel viso rosso e con venuzze violacee nelle guance...."trattata come serva in casa della figlia, solo la nonna ha amato il protagonista bambino di un affetto che non attendeva di essere ricambiato: "appena nato ero stato nu cusariello di libastro vivo, un sorsetto di giulebbe di ciliegia, 'nu franfellik a base di zucchero, vaniglia e cannella che se pure pisciava, pisciava acqua santa. (...) E mo guarda comm'ero addivintato, nunmevulevostafermonupoco, fatti pettinare." Per lei il nipote aveva qualità, "che nessuno, tranne lei, se ne poteva accorgere". Che influenza poteva avere una nonna siffatta in un bambino sognatore, pieno di suggestioni alimentate dalle troppe letture? La testa è zeppa di fantasie disordinate, di troppi ruoli da ricoprire: "il caubboi, il senza famiglia, il mozzo, il naufrago, il cacciatore, l'esploratore, il cavaliere errante, Ettore, Ulisse, il tribuno della plebe" ed infine Orfeo che era andato a riprendersi la fidanzata Euridice nell'oltre tomba. Per dare realtà alle sue fantasie, il bambino doveva trovare la sua Euridice e l'entrata nel regno dei morti. La prima è una bambina milanese, che vive nel caseggiato di fronte e che lui guarda tutti i giorni mentre danza sul balcone in modo spericolato. Attenta a non cadere! vorrebbe urlargli il bambino, potresti finire come Euridice uccisa dal morso di un serpente lasciando sconsolato Orfeo. L'entrata al regno dei morti, dove salvare la piccola milanese, è un tombino in un cortile vicino casa; tombino sotto il quale si sentono strani rumori, forse le urla e i lamenti dei defunti. E' un'infanzia felice, protetta dalla nonna, immersa in un mondo fantastico: il nostro protagonista è Enea alla ricerca di Anchise (anche se il viaggio nell'oltre tomba è la scoperta di una foto dei nonni felici e belli al loro matrimonio), ha la sua Laura (la piccola milanese) ed è pure Lancillotto che duella con i nemici dinanzi alla bella amata; e che importa se il nemico sia un amico d'infanzia e le armi una bicicletta e un ombrello taroccato da spada. Proseguendo negli studi il nostro protagonista scopre che la lingua della nonna, così fascinosa ed affettuosa, lo porta a commettere numerosi errori di ortografia e di sintassi, gli impedisce di liberarsi dal napoletano per parlare e scrivere un italiano corretto. Si dissolve la magia. "Come se a partire dai dodici e tredici anni fossi miracolosamente diventato più vecchio di lei, le era venuta, in aggiunta, una specie di soggezione nei miei confronti.(...) A diciannove anni non avevo ancora nessuna voglia di rievocare l'infanzia. (...) Sotto sotto, avrei preferito essere venuto al mondo intorno ai diciassette anni, evitandomi le sciocchezze dei primi sedici." L'ultimo passo verso il distacco è quando il nostro protagonista usa la strana e disprezzata lingua della nonna per superare brillantemente l'esame di glottologia all'università. Dovevo, pensa il protagonista, "dimostrare che sapevo accostare al modo prescritto gli incolti che parlavano" il dialetto. "Mi stavo approfittando della sua credulità come se fosse bambina. (...) Puntarla a tenerla lì in un angolo per un paio di mattinate, (...) e spingerla a dirmi (...) qualsiasi cosa le venisse in mente del suo mondo di nonna-serva che sapeva più parole napoletane di chiunque altro."
Con la sparizione della nonna, scrive con rassegnata malinconia il protagonista ormai adulto, "persi inequivocabilmente la spinta a fare grandi cose (...) sapendo ormai che quel poco di veramente vivo che facciamo vivendo resta fuori dalla scrittura, i segni sono costituzionalmente insufficienti, oscillano tra commento e sgomento, meno male che è così. Mi concessi solo una piccola attenuante e ancora oggi me la concedo: il piacere della parola che sul momento pare giusta poi no". Torniamo a Pasolini, per il quale solo "i ragazzi di vita" colgono l'essenza della realtà, senza mediazioni, perché usano "la lingua dei parlanti". Ed allora tutto questo scrivere, da secoli e secoli, non è altro che una forma di narcisismo, di ricerca del piacere, l'eterno io specchiante. E la parola non è altro che un inutile filtro tra noi e l'essenza della vita e della morte.
Il pregio principale del romanzo è la scrittura. Si rimane ammirati ed avvinti dall'equilibrio stilistico tra semplicità e complessità delle frasi, dalla fluidità del narrare e dall'uso sapiente delle parole, in particolare degli aggettivi. Può darsi che il piacere dello scrivere sia fragile, come dice Starnone, ma ben venga questa fragilità. Alla fine il gusto della lingua prende il sopravvento rispetto alla storia: è intrigante e istruttivo approfondire la fonetica: è tuttavia una divagazione eccessiva che toglie compattezza al racconto.
Perché leggerlo? E' stilisticamente perfetto, splendida la figura della nonna.