"Tengo una figlia, bella e cianciosa,/zetella e ffresca, comm'a 'na rosa;/sempre vicina, da peccerella,/ ll'aggio tenuta pella vunnella.". Così cantava Nunziata della sua bambina Miluzza, cercandole i pidocchi in testa. E Miluzza era bella davvero e tutti i maschi del paese "studiavano le caviglie sottili di cavallino da corsa, il seno germogliante come un mazzolin di fiori, il capo da quattordicenne di un fascino oscuro". Che cosa volessero Miluzza lo sapeva "per memoria prenatale", ed anche perché era nata e cresciuta in una povera famiglia dei bassi: il padre sciancato, impotente e cornuto, la madre nota per darsi a tutti i soldati di passaggio, facendolo con gioia e passione come Bocca di Rosa della canzone di Fabrizio De André. Figlia della puttana del quartiere, Miluzza conosce il sesso ancora bambina: che sia la compagna di gioco o la vecchia negoziante, o invece il parroco e l'austero professore. Non è vero rapporto carnale, sono perlustrazioni lascive della piccola vagina; d'altra parte "non si va in giro con certe gambe di fuori e senza mutandine". E' possibile che Miluzza avrebbe avuto lo stesso destino della madre Nunziata, puttana accettata dalla piccola città di provincia, quando la morte dei genitori (e quindi il venir meno della modesta sartoria con la quale vivevano) e il lavoro di operaia in un'azienda locale di cartonato, cambiano radicalmente la vita di Miluzza. Il padrone si invaghisce della ragazza e senza ritegno la fa la sua amante. Sperando di nascondere la relazione e per sorprendere Miluzza, la conduce a Napoli, ospitandola in grandi alberghi e facendole frequentare i migliori ristoranti. Ma è proprio la vita elegante nella grande città che porta Miluzza a realizzare la sua condizione di mantenuta, di "Sisina, Sisina elegante, (...) e pe' 'na lira fa zuchetuzù", come recita un macchiettista insolente. Ascoltandolo tra le risate generali, "Miluzza ebbe un riso freddo. (... Il mondo napoletano, così sbracato, era il contrario del suo umore". Per lei il sesso è un fatto naturale, malinconico, soffuso e delicato da consumare in un ambiente discreto, tra la gente del quartiere, senza offendere chicchessia. Anzi, Miluzza rischia di essere travolta dallo scandalo, di doversi chiudere in casa tra il vituperio generale, di dover lasciare la cittadina dove è sempre vissuta. A salvarla giunge la guerra e come l'angelo della Resurrezione arriva un soldato in fuga.
Il finale felice stona con il tono complessivo del racconto, lezioso e spumeggiante, ma sempre impregnato di uno sconsolato pessimismo. La vita della povera gente è e sempre sarà così: ritagliarsi spazi di sopravvivenza e di semplice divertimento tra le miserie e le fatiche quotidiane. Ma è veramente una vita così triste o invece si va avanti sereni e sicuri perché parte di una umanità rigogliosa e festante? Non è un caso che sia la grande città a scoperchiare lo squallore, di cui prima non si era consapevoli quando si viveva nel proprio ambiente.
La scrittura è il pregio fondamentale del racconto. Rea crea una nuova lingua, un misto di italiano e di napoletano; in tal modo dà brio e suggestione all'intera narrazione, mostrando pure come si può usare la "lingua dei parlanti" senza renderla un espediente civettuolo o, peggio ancora, una specie protetta.
Perché leggerlo? Brioso e accattivante.