Gradimento Medio-alto
ma non lo rileggerei

Cacao

scritto da Amado Jorge
  • Pubblicato nel 1963
  • Edito da Garzanti
  • 106 pagine
  • Letto in Italiano
  • Finito di leggere il 15 giugno 2023
Questo breve romanzo ricorda una novella di Giuseppe Verga: "La Varanisa" (vedi la recensione di "Le novelle" in questo sito). Lo scrittore siciliano sintetizza mirabilmente la condizione contadina descrivendo i piedi di una misera ragazza: "quei piedi abituati ad andare nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto essere belli". Così Amado sottolinea più volte i grandi piedi prodotti dal lavoro di raccolta e lavorazione del cacao nelle grandi "fazendas" brasiliane. "Il cacao veniva rovesciato nei truogoli a fermentare per tre giorni. (...) Poi, liberato dal miele, il cacao veniva messo a seccare al sole nelle vasche. Anche li ci ballavamo sopra e cantavamo. I nostri piedi si allargavano, le dita divaricate. (...) Jaca! Jaca! I bambini si arrampicavano sugli alberi come tante scimmiette. La jaca cadeva - patapum- e loro si avventavano. (...) I piedi larghi erano come quelli degli adulti, la pancia gonfia, enorme, per la jaca e la terra che mangiavano". Il giovane Amado racconta la vita dei braccianti nelle grandi aziende di coltivazione del cacao: "quel frutto giallo, dai semi dolci, che li rendeva prigionieri di una vita di carne essiccata e di jaca"; "un romanzo proletario"  che immagina scritto da un giovane ridotto in povertà dall'avidità di uno zio capitalista; sfruttato e umiliato nel lavoro di fabbrica,  persegue un confuso destino di riscatto tra i braccianti, tra gli "affittati", costretti a lavorare come schiavi per i grandi latifondisti. Che cosa lo spinge? Far parte dei dannati della terra, rompere radicalmente con le ambiguità della borghesia per scoprire che il futuro risiede solo nella solidarietà tra i poveri, nella loro disperata e determinata resistenza allo sfruttamento e alle prepotenze. La narrazione ha il timbro da romanzo sociale: una sorta di Emile Zola brasiliano,  Amado intende descrivere freddamente, "naturalmente" direbbe Boccaccio, la condizione contadina e la trasformazione del giovane narratore e protagonista in bracciante esperto e miserevole. Le tappe di questo cambiamento, fisico e mentale, sono scandite dai grandi temi dell' uomo: l'ambiente, splendido e violento, la vita in comune, anche con i suoi momenti di festa, le amicizie e gli amori, il disgusto per il padrone, spietato e avido, e per la sua arrogante e amorale famiglia, la progressiva conquista di una coscienza di classe, e infine la definitiva scelta di campo. Il protagonista frequenta la figlia del proprietario, la quale vorrebbe sposarlo. "Faremo l'irrimediabile. (...) Diventerai padrone. Chinai la testa a fissare il suolo. Ammucchiavo foglie con la mano. (...) No Maria. Continuo a lavorare. Se vuoi diventare moglie di un affittato".  Non bisogna lasciarsi ingannare dallo stile asciutto, quasi da inchiesta sociale. Aleggia un non so che di fantastico, d' irreale, che si alimenta in un rapporto ambiguo con il cacao, come se in tanta meraviglia sia inevitabile il riscatto sociale. "L'oscurità avvolgeva tutto. Piangevano le chitarre, gli uccelli cinguettavano. I frutto d'oro del cacao e i serpenti. Le stelle brillavano in cielo. Le lanterne per strada sembravano anime levate in volo. La notte in fazenda è triste, cupa, dolorosa. E di notte che la gente pensa...(...) Guardavamo la piantagione di cacao e non trovavamo la soluzione." 

La domanda che viene spontanea dalla lettura di Cacao è se la condizione umana dei poveri non sia sempre la stessa in tutte le latitudini. Che differenza c'è tra i personaggi di questo romanzo e i protagonisti di Malavoglia di Verga, di Terra e Germinal di Zola, di Furore di Steinbeck (si vedano le recensioni in questo sito)? Sempre la stessa disperata lotta per la sopravvivenza sotto il peso avido e spietato dei ricchi? Pare non esserci speranza e all'intellettuale non resta che un rassegnato distacco, talvolta si assume una retorica socialista (si veda la parte "manifesto" di Furore), in altri casi ci si limita a descrivere adducendo giustificazioni letterarie, come per il verismo di Verga,  in altri casi ancora ci si rinchiude in una malinconica ironia, come nei libri successivi di Jorge Amado. E' come se lo scrittore e il poeta abbiano accettato la sconfitta affidando al giornalismo il compito di rammentarci, senza esagerare, che esiste la sofferenza sociale nel mondo, e non solo i tormenti borghesi.

Ho letto il libro dopo la grande sbornia lessicale e immaginativa di Grande Sertao (si veda la recensione in questo sito), per cui lo stile essenziale e lineare di Amado è aria fresca, come immergersi in acque limpide su un fondale di sabbia, senza le luci e le ombre dei mari profondi e scogliosi . Le frasi sono brevi, gli aggettivi pochi, il fascino della narrazione si affida alle vicende come se queste parlino di per sé. Certo, quanta nostalgia per la scrittura di Joao Guimares Rosa!

Perché leggerlo? un grande romanzo sociale.

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