Dino Buzzati è uno dei più affascinanti scrittori italiani del secondo Novecento: sospeso tra fantastico e realismo, ha colto l'angoscia esistenziale dell'uomo contemporaneo, la mancanza di speranza e insieme l'intenso desiderio di fuggire in un mondo migliore, di là dalla realtà; è il Kafka e il Philip Dick della nostra letteratura, spesso così prosaica e lirica. Grande scrittore da leggere a piccole dosi, è un peccato che sia stata ripubblicata questa ampia raccolta di racconti del 1958 perché mostra pure i limiti del mondo poetico e spirituale di Buzzati. Partiamo da un breve racconto, "Una goccia". In un condominio avviene un fatto strano: "una goccia d'acqua sale i gradini della scala. La senti? Disteso sul letto nel buio, ascolto il suo arcano cammino. Come fa? Saltella? Tic, tic, tic, si ode a intermittenza. (...) Ma che cosa sarebbe poi questa goccia, (...) sarebbe per caso una allegoria? (...) O più sottilmente si intende raffigurare i sogni e le chimere? Oppure posti più lontani ancora, al confine del mondo, ai quali mai giungeremo." No, è soltanto una goccia. Nella sua banalità e stranezza una goccia d'acqua saltellante sintetizza il filone narrativo di tutta l'opera di Buzzati: la bizzarria del reale, che non è quello che dovrebbe essere, lo spasmodico bisogno dell'essere umano di radicarsi a qualcosa di concreto insieme con l'attesa di qualcos'altro, il tutto, però, rinchiuso in un mondo claustrofobico dal quale non si può fuggire. Pensiamo a un altro racconto, un bozzetto ironico e gentile della buona borghesia milanese. In "Paura alla Scala" siamo alla prima di un'opera, nel grande teatro si è radunata la società più elegante e ricca di Milano. Si diffonde la voce che sta per scoppiare la rivoluzione; e allora gli spettatori restano dentro la Scala come fosse una sede diplomatica. "Tra tanta gente conosciuta, in un ambiente estraneo alla politica, (...) si sentivano protetti". Con fine psicologia Buzzati descrive le dinamiche di questo mondo "lieto, nobile e civile," ma spaventato e incapace di reagire. "Nella piazza spuntò un ometto curvo spingendo un carrettino. Con calma estrema (...) l'ometto cominciò a spazzare. Bravo! Bastarono pochi colpi di ramazza. (...) Niente era successo". E che dovrebbe capitare? Ricordando una bellissima poesia di Caproni ("Congedo del viaggiatore cerimonioso"), in "Qualcosa era successo" i viaggiatori arrivando alla stazione la trovarono vuota, "finché la voce di una donna, altissima e violenta come uno sparo, ci diede un brivido. Aiuto! Aiuto! urlava e il grido si ripercosse sotto le vitree volte con la vacua sonorità dei luoghi per sempre abbandonati". Non c'è nulla ad aspettarci oltre la nostra triste esistenza.
Il tema di un mondo claustrofobico dal quale si sfugge, anche ricorrendo alla fantasia, percorre l'intera raccolta di racconti. Ciascuno di essi affascina il lettore, pur nella differente qualità stilistica e narrativa; il tutto diviene monotono e incombente nel suo pessimismo esistenziale. Il libro dovrebbe essere preso come un breviario, da leggere ogni tanto, qualche breve storia, quando si ha bisogno di ricorrere al fantasy e al paradossale, ma senza avere la pretesa di sollevare lo spirito dinanzi alle brutture del mondo. O forse, come in "Sette piani", splendida narrazione di un ricovero ospedaliero (chi di noi non ha vissuto le paure e la solitudine del malato in balia dei medici?) non resta che il fascino misterioso del paesaggio. "Guardava il verde degli alberi attraverso la finestra, con l'impressione di essere giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti e piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero veri; finì anzi di convincersene, notando che le foglie non si muovevano affatto."
Per apprezzare i racconti occorre fare un ampio ricorso alle citazioni. Infatti, non è la struttura narrativa che avvince, essa è anzi ripetitiva; il punto di forza di Buzzati è la scrittura. C'è da chiedersi come faccia quest' autore a mescolare lo stile fantastico e surreale, persino fantascientifico, con una prosa descrittiva, attenta ai dettagli, all'approfondimento psicologico e al contesto, come vorrebbe il buon romanzo ottocentesco; narrazione sempre elegante, fluida e ricca dal punto di vista lessicale.
Perché leggerlo? Tenerlo nel comodino come un breviario, di fantasia ed eleganza.