Gradimento Medio-alto
ma non lo rileggerei

L'alveare

scritto da Cela Camillo José
  • Pubblicato nel 1951
  • Edito da Utopia
  • 267 pagine
  • Letto in Italiano
  • Finito di leggere il 05 settembre 2025
Il romanzo è ambientato a Madrid durante la seconda guerra mondiale: è un periodo di profonda crisi economica, caratterizzato da una diffusa miseria e da un senso di "attesa senza speranza", aspettativa di un generico cambiamento insieme a un rassegnato pessimismo.  Dona Visi è felice perché la figlia ha trovato un fidanzato, <<uno che studia per il posto di notaio>>, il marito <<si rigira fra le lenzuola, "Bene, aspetta a suonare le campane a festa. (...) Stiamo a vedere come va a finire>>, e il marito lo sa bene perché ha incontrato la figlia a prostituirsi. Madrid è una città dove tutti <<camminano senza alcuna meta, con le mani nelle tasche vuote -- nelle tasche che, a volte, non sono nemmeno calde -- con la testa vuota, con gli occhi vuoti e nel cuore, senza che nessuno se lo spieghi, un vuoto profondo e implacabile. (...) La notte si chiude (...) sullo strano cuore della città. Migliaia di uomini dormono abbracciati alle loro donne, senza pensare al duro, crudele giorno che forse li aspetta in agguato, come un gatto selvatico, tra poche ore. Centinaia e centinaia di studenti cadono nel vizio solitario. E alcune dozzine di ragazze aspettano -- che aspettano, Dio mio? Perché le illudi così? -- con la mente piena di sogni dorati...>>. Se "La famiglia di Pascual Duarte" (si veda la recensione in questo sito) ruota intorno a un personaggio dominato da un'inclinazione sanguinaria, da un destino cui non si può resistere, qui abbiamo una serie di episodi, aneddoti e figure, in una successione disordinata che rende difficile ritrovare un filo unitario. D'altra parte a che serve approfondire la vicenda di Elvira, già stanca prostituta, o quella di Celestino, che parla da solo, o capire meglio chi sia realmente <<il poeta del rione, (che) ha i pomelli rossi e qualche volta, quando è in vena, sviene nel Caffè e devono portarlo al gabinetto>>. Sono tante figure, fisiche e quindi contestualizzate, ma anche allegoriche di una condizione umana; ed è inutile entrarvi dentro, tanto è simile il loro destino.  Se si vogliono proprio trovare due riferimenti, questi si possono individuare in Dona Rosa e in Martin. La prima <<va e viene tra i tavoli del Caffè, urtando i clienti con il suo enorme sedere>>, al centro di un caleidoscopio di sconfitti e di rassegnati, << con i gomiti sul vecchio, crostoso marmo dei tavoli, (...) un tempo lapidi mortuarie>> (immagine stupenda di un mondo nel quale tutto è venuto meno). E lei, la grande ostessa, <<si palpa il ventre (...) Vada, vada....Ciascuno al suo posto. (...) I peluzzi dei suoi baffi si agitarono in atto di sfida, solennemente, come i cornetti di un grillo innamorato e orgoglioso>>. Martin è un giovane intellettuale che vive di qualche articolo sul giornale, dei pasti della sorella, che gli mette da parte qualcosa all'insaputa del marito, e delle generosità di una tenutaria di bordello, che gli permette di dormire in un letto caldo accanto a una giovane prostituta. <<Sente i capelli della giovane sulla sua faccia, sente il suo corpo nudo sotto le lenzuola, sente il respiro che, a volte, è un pochino roco, in maniera quasi impercettibile>>, e le recita una poesia melanconica, sogna di essere assunto all'Istituto di Previdenza Sociale, di andare sulla tomba della madre, e non si accorge neppure che la polizia franchista lo sta ricercando. <<Martin, per un vago presentimento, non vuole affrettarsi....>>.

E' vero che siamo nella Spagna degli anni '40, ma questa "attesa senza speranza" non è forse il sentimento che ci pervade in questo momento, dinanzi ad annunci di clamorose svolte (la pace in Ucraina, la fine del genocidio a Gaza) per poi ritrovarci sempre nell'immobilismo più feroce? Non siamo noi come i personaggi di questo alveare, metafora della nostra condizione? Non ci sentiremo vicini a quanto racconta Cela se l'autore non si fosse affidato a uno stile asciutto, essenziale e intenso, così distante dalle circonvoluzioni di scrittori spagnoli contemporanei, come Cercas, Marìas e Aramburu  (si vedano le numerose recensioni dei loro romanzi in questo sito). La scrittura di Cela, intrisa di crudo realismo magico, ricorda Canne al Vento di Grazia Deledda (si veda la recensione in questo sito).  Il limite del romanzo risiede proprio nella dispersione dei tanti aneddoti, nella confusione della narrazione; elementi che rendono difficile orientare la lettura, darle un senso complessivo. Occorre lasciarsi andare senza cercare una trama complessiva.

Perché leggerlo? Splendida la scrittura, metafora della condizione attuale

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