Ci sono artisti che rimangono inchiodati per sempre a un'idea che abbiamo di loro e che ci impedisce di apprezzarli veramente. Si pensi a Dino Campana, il poeta matto, e come alla presunta pazzia sia stata ricondotta la sua poesia, mettendo in secondo piano le qualità stilistiche e le fonti d'inspirazione (si veda la recensione in questo sito di "La notte della cometa" di Sebastiano Vassalli). Lo stesso è accaduto per Artemisia Gentileschi, pittrice vissuta tra il 1593 e il 1653. Benché fu autrice di circa 50 dipinti e divenne famosa in tutta Europa, la memoria di questa grande artista resta legata allo stupro e al successivo processo che subì nel 1612. << Eppure niente di tutto questo sarà sufficiente a far brillare il mio valore agli occhi del mondo. Come una maledizione che mi porto addosso, per tutti, collezionisti e biografi, sarò sempre la pittora dello scandalo, dello stupro e della vendetta >>. Così l'autore di questo romanzo immagina che Artemisia rifletta sulla sua vita, quando è ormai donna affermata, ben inserita nella società del suo tempo. In Artemisia riaffiora di continuo quel ritornello che le cantavano all'uscita del tribunale, assolta da ogni colpa, <<tra sorrisetti ammiccanti, proposte oscene, lazzi impietosi, (...) Pittora, pittoressa, piglia 'sto pennello e scaldalo a la fessa >>. E come potrebbe essere altrimenti se ammiriamo le sue Giuditte, impressionati dal realismo feroce delle immagini: il primo quadro ("Giuditta che decapita Oloferne"del 1612) in cui l'episodio biblico è trasformato in una rappresentazione della vendetta della donna offesa, e il secondo alla fine della sua vita ("Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne" del 1650), in cui le due donne fuggono con la testa dell'uomo dopo averlo decapitato. Quanta profonda è la ferita in una donna abusata da emergere anche dopo tanti anni! Il piacere della negazione non è concesso alla donna, come dice Tjeu Cole in "Open City" (si veda la recensione in questo sito). Tanto più se lo stupro è stato permesso dal padre Orazio, che si è servito della bella e giovane figlia per ingraziarsi i potenti e stringere relazioni d'affari; e ancora di più se con la denuncia, che ha disonorato per sempre la figlia, il padre non voleva punire lo stupratore, ma intendeva riavere un quadro di cui si era appropriato lo stupratore: quadro la cui ideazione il padre riteneva sua, ma era invece di Artemisia ventenne. Parliamo della prima Giuditta, con cui Artemisia si vendicava per l'eternità dell'uomo e rappresentava la solidarietà femminile contro la società maschile. Così tre volte tradita dal padre, Artemisia subì un processo e il disonore, in una Roma papalina, corrotta, violenta e lussuriosa. Nel romanzo Artemisia non è una vittima piangente, è una ragazza forte e disincantata, che sa che la donna deve combattere da sola. Difende. disperatamente e con orgoglio, il suo futuro di pittrice, cosciente del suo valore. Quando torna a casa, dopo aver subito la tortura, non le disturbano le insolenze degli uomini (è abituata!), è invece preoccupata delle sue mani, di poter ancora dipingere. Se la prima parte del romanzo racconta l'intrigo intorno alla vicenda di Artemisia, nella seconda parte, ambientata a Napoli nel 1648, Artemisia è ormai una donna affermata ed è difficile trovare nella narrazione la drammaticità che aveva caratterizzato la prima parte. Di fatto non ci sono vicende rilevanti, la narrazione procede placida, anche se emerge sempre l'irrequietudine di Artemisia, la sua inclinazione a preferire le scene violente, scandalose e turpi, proprie dei quartieri plebei di Napoli, in contrasto con l'opulenza manifesta del governo spagnolo, lontano dai bei ritratti eseguiti per gli uomini illustri, sempre affondando nella melma della sofferenza. Vogliamo discostarci dalle Giuditte, ma sono sempre loro a dominare la nostra visione di Artemisia.
E' difficile individuare un filone narrativo in una trama fatta di troppi episodi tra loro poco legati dallo svolgimento della storia. Lo stesso salto temporale e la differente ambientazione, Roma e poi Napoli, non favoriscono l'unitarietà del racconto. Il pregio del romanzo sta, invece, in alcune descrizioni dell'ambiente; descrizioni dai colori forti, dal frasario scurrile e dalla sottile ironia, tratti che richiamano Boccaccio, rendendo il racconto quasi un romanzo sociale. Si coglie l'influenza dei grandi scrittori napoletani del secondo dopoguerra, come Domenico Rea (si vedano le recensioni di "Spaccanapoli" e "Ninfa plebea" in questo sito). Per dare un'idea dello stile di Raffaele Messina si prenda come esempio una delle pagine più felici del romanzo: "All'osteria della fontana", dove gli avventori insinuano che sia stato il padre stesso a sverginare la figlia. << Buttata lì, su quella frattina intrisa di grasso animale, l'ipotesi catturò l'attenzione di tutti gli occupanti. I dadi, lanciati tra continue bestemmie, esaurirono il tintinnio entro il boccale rovesciato; le carte, scoperte sul tavolo o ancora rivoltate, non passarono più di mano di mano. (...) "Ebreo d'un oste, dacci er tuo parere! (...) Con un piatto fumante di minestra di farro e cotenne, retto in alto con la mano destra, si voltò lentamente verso il suo interlocutore e gli rispose con sorriso rubicondo: "E' bello il fottere come il bere vino. Di chi sia il buco o quale il vitigno, non è questione d'oste ma cavillo d'avvocato!">>.
La scrittura scorre fluida, inframezzata da abili citazioni degli atti del processo per stupro o delle lettere della stessa Artemisia; divagazioni che danno veridicità e colore alla narrazione, pur all'interno di un stile tipicamente contemporaneo, con scivolate anche giornalistiche, come per esempio l'abuso del "punto" e il conseguente periodo non sostenuto dal verbo.
Perché leggerlo? Belle le descrizioni dell'ambiente