"Non saprò mai dire se è Napoli o se sono io. (...) Oppure se è davvero la vista del palazzaccio dall'altra parte del cancello, l'onda gialla che gonfia, le cupole sotto le nubi, architravi troppo pesanti perché una donna sola possa reggerli. Se è fatta, la realtà, di terrazzi irraggiungibili, poteri irraggiungibili come li raccontano...". Con questo incipit il lettore si illude di pregustare il mondo surreale di Anna Maria Ortese (si vedano "Il mare non bagna Napoli" e il Cardillo Addolorato"); ed invece ci si trova dinanzi ad una storia d'amore sospesa in aria, perché travolta da un flusso di coscienza incontrollato in quanto totalmente interiore. Cinquantenne professoressa di matematica, Elisabetta Maiorano insegna nel carcere di Nisida. "Chiunque varchi la porta di un carcere lo sa (e se non lo sa, lo sente) che sta passando da un'altra parte inconciliabile con la promessa che ci fecero da bambini: che la vita non avrebbe fatto paura, e non saremmo mai rimasti soli. Il carcere invece è paura e solitudine". Ma essere detenuti, vivere in una quotidianità ripetitiva e nel contempo protettiva, che crea una sensazione di isolamento o sono invece le rimembranze di una vita, le speranze e le disillusioni, le scelte sbagliate e gli amori incompresi? A seguire l'effluvio senza sosta della protagonista narratrice viene a pensare che il carcere sia solo un grimaldello per fare uscire il mondo interiore, e pure per piangersi addosso: il marito non amato, il figlio disperatamente cercato con l'inseminazione artificiale e poi con le richieste di adozione, la noia dell'insegnamento, la vecchiaia che avanza. "Noi prendiamo questi faldoni e li riponiamo nel più remoto archivio della memoria e dopo nascondiamo la chiave. La nostra speranza, credo, è che quel giorno, ora lontano, in cui avranno scontato tutta la pena, tornerà loro nelle mani questa chiave, e dagli archivi spalancati voleranno fogli bianchi senza più inchiostro sopra, immacolati, come il bucato steso alle terrazze". Ma se per il carcerato, di cui parla apparentemente la protagonista, c'è la luce della vita normale, come può una persona imprigionata in sé stessa fuggire dalla propria esistenza, prosaica e triste? Solo se irrompe l'Amore. "Io mi sono legata ad Almarina così, mentre guardavamo il mare, e le ho raccontato che mio marito era un magnifico nuotatore. (...) Io non so nuotare, lei mi ha detto, allora."
Leggendo Valeria Parrella viene in mente Alda Merini, quando scrive "e forse staccherò dalle radici/la rimossa speranza dell'amore,/ricorderò che frutto d'ogni/limite umano è assenza di memoria,/tutta mi affonderò nel divenire...". In entrambe le autrici si è in presenza di una irrequieta e inappagabile ricerca di un Amore che permetta di rimuovere la memoria, o almeno sospenderla. Il carcere, così come il manicomio per la Merini, è una metafora della prigione dell'animo umano, un momento di quiete, un luogo di incontri inaspettati. Ogni pagina di Parrella è un cammeo, simile a un breve e intenso componimento poetico. Ma se in Merini il lirismo, il parlare di sé stessi, i sentimenti accennati, la preziosità lessicale sono al loro posto perché tipici di un sonetto, soprattutto secondo la tradizionale poesia italiana, in Parrella questi tratti stilistici e narrativi compromettono il racconto complessivo, tolgono movimento alla storia, inaridiscono i personaggi, in particolare quello di Almarina, di fatto incomprensibile. L' io specchiante non si addice al romanzo, il quale richiede comunque una trama.
Perché non leggerlo? Un effluvio elegante ma avulso da una struttura narrativa.