Gradimento Medio-basso
e non lo rileggerei

La stanza del vescovo

scritto da Chiara Piero
  • Pubblicato nel 1975
  • Edito da Mondadori
  • 170 pagine
  • Letto in Italiano
  • Finito di leggere il 02 gennaio 2023
"Nel tardo pomeriggio di un giorno d'estate del 1946 arrivavo, al timone di una grossa barca a vela, nel porto di Oggebbio sul Lago Maggiore". Con poche parole l'autore inquadra l'atmosfera dell'intero romanzo: l'immediato dopoguerra con il desiderio di recuperare gli anni migliori, persi in guerra o nei campi di prigionia, la libertà di veleggiare senza mai far ritorno a casa, come novelli Ulisse, e l'atmosfera irreale del lago, con le sue amabili località costiere, i venti leggeri e le burrasche, la nebbia e gli alti monti, e "l'òlea fragrante nei giardini d'amarezza". (Vittorio Sereni citato in apertura del libro). In questo contesto sospeso, nelle coscienze prima che nell'ambiente, l'io narratore e il suo amico occasionale, il dottor Orimbelli, cercano di "inventarsi una nuova giovinezza, di recupero, profittando dell'età ancora fresca e di un certo vigore del corpo". Non mancano le Penelope: la moglie e la cognata di Orimbelli, la prima lo aspetta da dieci anni, ormai delusa del marito, la seconda è in attesa del coniuge, dato per perso in guerra. C'è pure Itaca, la Villa Cleofe, dimora sontuosa e decadente. Gira e rigira con la barca, la storia si sfilaccia tra belle ragazze e camere d'albergo.  L'autore cerca di dare vigore alla trama immaginando un crimine misterioso e un finale a sorpresa; è un tentativo inutile perché tutto si perde nel languido e cinico clima di una società amorale, quale sarà quella dell'Italia del secondo dopoguerra.

C'è qualcosa dell'"Isola degli Idealisti" di Giorgio Scerbanenco (si veda la recensione in questo sito). Così come nel romanzo di Scerbanenco, la Villa Cleofe è un luogo di sospensione, che dà sicurezza agli uomini stanchi di troppi avvenimenti sconvolgenti; solo che in Piero Chiara la soluzione non risiede in un idealismo forse ingenuo ma carico ancora di speranza, la serenità va trovata nel vivere giorno per giorno, nel non riconoscersi ipocriti e manigoldi, quali si è in fondo. Non è un caso che l'io narratore pensi di essere moralmente superiore al dottor Orimbelli, bugiardo e mascalzone, ma continua a tenergli bordone, prestandosi alle piccole e grandi nefandezze dell'amico, come avvinto da un voluttuoso torpore. Solo la fuga pare salvarlo: appena la barca "cominciò a filare di poppa, volsi alla costa e rilevai una dopo l'altra le ville, intervallate dai loro parchi, (...) mentre il vento girava di un quarto e tra Canneto e la foce del Tresa mi si aprivano davanti le acque di casa, da solcare per l'ultima volta."

Il pregio fondamentale del libro è la scrittura: tutto fila liscio, la penna scivola leggera e sicura sul foglio bianco. Manca la trama, è a tratti prolisso, ma il lettore è avvinto dalle belle parole, capaci di celare il vuoto narrativo.

Perché leggerlo? Un bell' italiano. 

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