Il libro raccoglie le novelle di Giovanni Verga, scritte tra il 1874 e il 1894.
Lʼautore sente il bisogno di un raccoglimento dallʼintensa vita mondana di Milano, desidera "rivedere" la sua Sicilia, "lʼimmenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dellʼEtna".
Dallʼ esigenza di ritornare alle proprie radici ha origine il primo racconto, che racchiude tutti i grandi temi della narrativa di Verga.
Nedda, "la varanisa" è una misera ragazza; il suo destino è già segnato dalla sua nascita: "lʼimmaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad unʼaspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli; (...) la miseria lʼavea schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, lʼanima e lʼintelligenza - così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia".
Quanto è distante da questa realtà immutabile e crudele lo sguardo del privilegiato, che contempla "sbadatamente" lʼaffascinante paesaggio siciliano ed ascolta "con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così in basso al piede delle sue torri".( Le storie del Castello di Trezza nella raccolta Primavera ed altri racconti).
Da questa contraddizione tra il mondo degli umili e quello dei privilegiati, tra la visione romantica della natura e lʼaspra durezza dellʼambiente, ha origine il progetto di Verga, espresso chiaramente in apertura alla raccolta intitolata Vita dei Campi: "ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme.
Un dramma (...) di cui il nodo debba consistere in ciò - che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dellʼignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace comʼè, se lo ingoiò, e i suoi prossimi con lui".
È singolare che lʼautore abbia intitolato Fantasticheria questa sorta di manifesto, quasi ad indicare come lui stesso non ci credesse sino in fondo.
Ed infatti se ci inoltriamo nei tanti racconti ci accorgiamo come essi perdono di efficacia narrativa quando si allontanano dalla Sicilia.
Ne è consapevole anche lʼautore.
Nel racconto di chiusura alle Novelle Rusticane, dal titolo emblematico "Di là dal mare", Verga narra la partenza di due innamorati dallʼisola e, "quando lo assaliva la dolce mestizia di quelle memorie, egli ripensava agli umili attori degli umili drammi con unʼaspirazione vaga e incosciente di pace e di obblio".
È uno spartiacque: di qua le raccolte Vita dei Campi e Novelle Rusticane, dalle quali traspare un pessimismo sì profondo ma reso protesta sociale dal forte coinvolgimento dellʼautore con le sue storie e i suoi personaggi; di là una serie di raccolte (Per le Vie, Vagabondaggio, I ricordi del capitano dʼArce, Don Candeloro e C), nelle quali la narrazione degli umili perde di energia, diviene pietismo, commiserazione, rassegnazione, sconfitta.
I racconti più belli sono quelli di Vita dei Campi.
I personaggi sono eccezionali, devianti dalla norma: Jeli, Turdiddu, Gramigna, La Lupa, Rosso Malpelo, si collocano "fra tanti matti che hanno avuto il giudizio nella calcagna, e hanno fatto tutto il contrario di quel che suol fare un cristiano il quale voglia mangiarsi il suo pane in santa pace".
(Verga nella prima stesura poi eliminata di Pentolaccia, citato nellʼintroduzione di Carla Riccardi pag.
XIII).
Prendiamo la storia di Jeli.
Si apre con la rievocazione dellʼamicizia infantile tra lʼingenuo guardiano di cavalli ed Alfonso, il figlio del padrone.
Tra i due bambini non ci sono differenze di classe e di cultura: godono insieme delle meraviglie di una natura primordiale.
Ma diventando grande Jeli subisce lʼurto con la realtà, sempre tragica in un rapido crescendo, culminante col tradimento del valore più alto: lʼamicizia.
È infatti Alfonso che gli prende la moglie come amante.
"Sua moglie lo lascia a infradiciare dietro lʼuscio, dicevano i vicini, quando in casa cʼè il tordo ! Ma Jeli non sapeva nulla, chʼera becco.
" Quando però vede che Alfonso, "colla bella barba ricciuta, e la giacchetta di velluto e la catenella dʼoro sul panciotto, prese Mara (sua moglie) per la mano per ballare, solo allora, come vide che la toccava, si slanciò su di lui, e gli tagliò la gola di un sol colpo, proprio come un capretto".
La violenza cieca ed improvvisa dellʼumile, che troppo ha sopportato, è spesso la conclusione delle storie.
Lo è anche nel celebre racconto "La Lupa".
"Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiano".
Non è una donna che subisce, la volontà e la sensualità la rendono dominatrice.
Per avere lʼuomo che ama le dà la figlia in sposa, per portarselo a letto nella stessa casa, contro ogni convenienza.
Allora lʼuomo per liberarsene "lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure sullʼolmo.
La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri".
È unʼ immagine straordinaria e di grande impatto, che lascia sospeso il racconto: lʼuomo lʼha uccisa o si è gettato nuovamente fra le braccia della Lupa ? Nelle Novelle Rusticane la narrazione si irrigidisce.
I personaggi di Il Reverendo, Cosʼè il Re, Don Lucciu Papa, Malaria, Libertà, non sono che lʼincarnazione delle leggi della società siciliana.
In fondo la vita è come quella dellʼasino di San Giuseppe, dellʼomonimo racconto:è inutile ribellarsi e non è detto che gli animali stiano peggio di tanti esseri umani.
Il destino inevitabile di tutti gli umili: "compro soltanto la legna, perché lʼasino ecco cosa vale ! E diede una pedata sul carcame, che suonò come un tamburo sfondato".
La qualità stilistica e narrativa dei racconti è discontinua, in quanto "lʼitinerario del Verga novelliere si può definire come una serie di tappe di avvicinamento ai romanzi" (Introduzione di Riccardi pag.
XXIV).
Nei racconti Verga si nasconde di meno dietro il verismo, lʼapparente distacco dai personaggi e dalle situazioni: le novelle sono una sorta di laboratorio, nel quale lo scrittore lavora "in più direzioni e contemporaneamente su più versanti, anche il teatro" (introduzione di Riccardi pag.
XXV), ma raggiunge la sua espressione migliore laddove è più evidente il coinvolgimento, il legame con la sua terra e la protesta implicita per le condizioni disumane del popolo meridionale.
Sotto questo profilo i racconti, in particolare di Vita nei Campi, hanno una vita autonoma rispetto a quella dei romanzi e sono spesso dei capolavori.
Perché leggerlo ? Nedda, Vita dei Campi e Novelle Rusticane sono grandi racconti, che danno una visione realistica e coinvolgente del nostro Meridione.